5 aprile 2016

«Il problema del transfert. Conversazione con Riccardo Galiani» di Doriano Fasoli

Riccardo Galiani è psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana. Insegna come professore associato psicologia dinamica e psicopatologia delle relazioni presso il corso di laurea magistrale in Psicologia clinica del Dipartimento di Psicologia della SUN. Redattore di notes per la psicoanalisi, collabora con la rivista Psiche, per il cui prossimo numero (2, 2016) dedicato al tema della distruttività ha scritto il «Dossier». Tra le altre pubblicazioni recenti: Contenimento, seduzione, anticipazione (2010), volume sui fondamenti intersoggettivi delle relazioni primarie, «La situazione psicoanalitica come rottura della comunicazione ordinaria» (in P. Fédida, Aprire la parola. Scritti 1968-2002, 2012), «Pour une métapsychologie de la parole: trajectoires de l’œuvre de Pierre Fédida» (in P. Fédida, Ouvrir la parole, 2014), «Autobiografia di un vivente in tre capitoli (più uno). Note per Louis Wolfson» (in M. Balsamo, L’autobiografia psicotica, 2015). Coordinatore del gruppo di ricerca «Il problema del transfert» (Dipartimento di Psicologia, SUN), è membro del SIUEERPP (Séminaire Inter-Universitaire Européen de Recherche. Psychopathologie et Psychanalyse). La conversazione con Galiani ha per occasione la pubblicazione del libro Il problema del transfert 1895-2015, da lui curato con Stefania Napolitano, psicoterapeuta di formazione lacaniana, dottore di ricerca in Studi di genere all’Università di Napoli Federico II e autrice dei volumi Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi (2010) e Clinica della differenza sessuale (2015).

Doriano Fasoli: Riccardo Galiani, tu hai progettato e curato, insieme a Stefania Napolitano, Il problema del transfert 1895-2015, volume appena uscito per Alpes (collana «I territori della psiche»); come è nata l’idea del libro?

Riccardo Galiani: Così come appare ora, finito, il libro non risponde ad un’unica idea, non nasce tutto in una volta. All’origine c’è l’esigenza di trovare uno strumento che mi aiutasse a affrontare, anche nei corsi universitari, il tema del rapporto insolubile tra persona dell’analista e situazione psicoanalitica. L’interesse per la modalità in cui la persona dell’analista può aprire – o non aprire, se non occludere – quel «sito dell’estraneo» che, come diceva Fédida, è la situazione psicoanalitica, si è progressivamente trasformato in un’esigenza di lavoro. Penso poi che il far conoscere il modo in cui, nel corso di questo secolo e più di psicoanalisi, diversi ricercatori (sono dell’idea che la riflessione sul singolo caso, sul singolo frammento di analisi, o anche di seduta in alcuni casi, sia la ricerca psicoanalitica), al di là delle «scuole» di appartenenza, hanno cercato di costruire strumenti per pensare questa questione possa contribuire a far acquisire una consapevolezza della specificità della psicoanalisi anche a coloro che psicoanalisti non sono (non lo sono ancora, non lo saranno).

Si tratta ovviamente di un argomento all’ordine del giorno, o quasi, nei gruppi di ricerca e studio che animano le associazioni psicoanalitiche; ma penso che, seppur ovviamente affrontato in modo diverso, sia un argomento che debba essere presentato anche sul piano degli studi universitari. Nella mia esperienza (non saprei dire quanto possa essere generalizzata, ma l’impressione che ricavo dagli scambi con alcuni colleghi è che sia in effetti generalizzabile), nel corso degli studi di psicologia, soprattutto da quando è in vigore lo sciagurato «3+2 che non fa cinque, ma di fatto molto meno,» la situazione psicoanalitica è spesso evocata, anche quando non si tratta specificamente di psicoanalisi – e ciò può essere un bene – quasi solo attraverso riferimenti al transfert.

Il che, si potrebbe dire, è più che opportuno: tutti gli psicologi clinici fanno riferimento al transfert. Il punto è che il più delle volte la fretta che imponiamo agli studenti e a noi stessi (quasi dovessimo portare a termine una sorta di programma ministeriale, sul modello scolastico) produce come risultato una conoscenza del fenomeno fondata su formule riassuntive, spesso di suggestione, a volte anche ad effetto, o altisonanti, ma che il più delle volte poggiano sul vuoto, e non solo perché, come si dice, lo studente non può fare esperienza. Le analisi sistematiche, se ben condotte, sono in grado di offrire un punto di vista sul fenomeno oggetto di interesse in grado di supplire, attraverso la creazione di strumenti metaforico-rappresentativi (concetti, nozioni), all’assenza di esperienza. Da qui l’idea di un approfondimento chiaro, ma non banale, di ciò che si può ricavare da un tentativo di analisi del transfert, che in questo modo si può presentare come un «problema» da svolgere. Ricercando dei riferimenti, mi sono ricapitati sotto gli occhi, per ragioni varie, dei testi di Lagache e per la prima volta ho letto con la dovuta attenzione il «Rapport» pronunciato alla «Conférence des psychanalystes de langue française des pays romans» (il futuro «Congrès des psychanalystes de langue française») nel novembre del 1951.

Mi sembra di capire che, pure se fondamentalmente dettato da esigenze di insegnamento, questo volume è in una certa continuità con quanto hai pubblicato in precedenza.

Se, come credo, ti riferisci a quanto fatto con Fédida, è così. Da quando ho pubblicato l’antologia di testi di Fédida Ouvrir la parole, grazie a Lucio Russo stiamo lavorando, sono ormai tre anni, con alcuni colleghi intorno al ruolo della parola e dell’ascolto nella situazione psicoanalitica, proprio a partire dai lavori di questo maestro che è stato Fédida. Il «Rapport» di Lagache l’ho riletto anche per questo, ma andando avanti con la lettura mi è parso di trovarmi a portata di mano uno strumento capace di far lavorare anche gli studenti con questa questione; ho riscoperto una magistrale, con i limiti che a ragion veduta sono stati riconosciuti da subito (non solo da Lacan), esposizione del «problema del transfert» come effetto principalmente della situazione psicoanalitica. Così ho pensato di tradurlo, anche per prendere un pausa dalla lingua di Fédida, molto diversa da quella, trasparente, chiara e concisa, di Lagache (gli aggettivi non sono miei, ma di Laplanche).

Quali sono questi «limiti»?

I limiti evidenti del «Rapport» risiedono prevalentemente nella parte conclusiva, in cui Lagache espone la sua tesi del transfert come transfert di un’attribuzione di un significato a una condotta, cadendo in sostanza a sua volta nell’errore di confondere la possibilità di valutare – come condotta – singoli fenomeni di transfert con la possibilità di intendere allo stesso modo la dimensione complessiva del transfert, che resta quella, come dicevo prima, del fantasma, di un fantasma sostenuto e sospinto prevalentemente dalla passione legata alla seduzione. C’è poi indubbiamente il limite potenzialmente costituito dalla stessa operazione di «analisi del problema» a fini esplicativi, didattici anche, operazione esposta al rischio di un eccesso di categorizzazione; mi sembra però che, da questo punto di vista, i vantaggi offerti dal modo in cui nel «Rapport» Lagache conduce l’operazione siano nel complesso maggiori dei rischi stessi.

Come tu stesso ricordi nell’introdurre il volume, Daniel Lagache è stato a suo tempo un fiero sostenitore della «unità della psicologia», un’unità di cui la psicoanalisi doveva per lui essere parte integrante. Proporre nel 2016 la traduzione italiana del «Rapport» di Lagache non corre forse il rischio di far sottovalutare questi stessi limiti che ricordavi, e di ridare voce all’appello all’unità tra psicologia accademica e psicoanalisi? D’altra parte, tu stesso nel chiudere l’introduzione noti, non senza amarezza devo dire, che un lavoro come il vostro, che attraverso la storia della tecnica psicoanalitica si occupa di ciò che caratterizza la psicoanalisi, non sarebbe valutato un gran che, secondo i criteri accademici.

È così. Anzi, sarebbe valutato zero, perché la psicologia dinamica, settore accademico di riferimento, si è appiattita, volendo farsi riconoscere come «disciplina scientifica», su criteri di valutazione che pongono al centro il metodo di misurazione «obiettivo» dei fenomeni psichici. C’è un interesse sempre più spiccato per il metodo, che comporta il disinteresse per la peculiarità dell’oggetto di indagine; quando la psicologia dinamica prende a prestito dalla psicoanalisi, per le sue ricerche, i fenomeni inconsci, l’assurdità diventa palese (misuriamo l’inconscio? misuriamo il transfert?), ed è ancora più assurdo che spesso su questa strada si incontrino sempre più psicoanalisti convinti di poter «salvare» la psicoanalisi dotandola così di maggiore scientificità; ad ogni modo, gli interessati al genere troveranno nella seconda parte de Il problema del transfert 1895-2015 una grandissima messe di informazioni anche su questo tipo di ricerche. Quanto al rischio di cui parlavi, non lo posso escludere del tutto, ma, se devo fare una valutazione, sono piuttosto convinto che non sia così; perché il momento storico è radicalmente diverso e a mio avviso la psicoanalisi può continuare a trasmettersi anche nell’università unicamente rendendo sempre più evidenti le sue differenze dalla psicologia, chiarendo le ragioni per cui la sua identità è metapsicologica. Se il mio «no» è convinto, non è però solo per questo. Lagache ha fatto un grande sforzo per diffondere la teoria psicoanalitica, e questo sforzo per lui andava di pari passo con il tentativo di insediarla nell’università nell’ambito delle scienze psicologiche, al cui sviluppo ha sempre continuato a partecipare (è per esempio tra gli introduttori del Rorschach in Francia). Quando Lagache perorava la causa dell’unità (la locuzione sull’«unità della psicologia» è l’atto di insediamento di Lagache come docente di psicologia clinica alla Sorbonne), presentava la psicoanalisi come una forma di psicologia della condotta che proprio la «situazione psicoanalitica” poteva consentire di studiare, tramite per l’appunto il transfert, in una condizione «quasi-sperimentale»: la presentava insomma in una veste che poteva ai suoi occhi agevolarne l’accettazione da parte della psicologia accademica (un po’ come negli ultimi due decenni accade quando si veste la psicoanalisi con panni presi in prestito da ambiti di ricerca ritenuti sufficientemente à la page). Eppure lo stesso Lagache non rinuncia a dire che questo tipo di presentazione della situazione psicoanalitica, fondante su quella che appare – spesso anche in Lagache – come una situazione interpersonale – ossia di scambio tra le persone reali – analista-paziente, è per lui in fondo solo un altro di quegli «artifici» (l’espressione è sua) di cui la psicoanalisi si è dotata per porre in essere la specificità transferale; una specificità che per lo stesso Lagache (che in alcuni punti è molto chiaro su questo) ha a che fare fondamentalmente con i fantasmi di seduzione che utilizzano la superfice offerta dalla persona dell’analista, ha a che fare cioè con il sessuale infantile.

Il volume però non è solo – e questo è forse il motivo principale del suo interesse – il «Rapport» di Lagache…

Nel «Rapport» ho ritrovato la qualità di una buona ‘mappa’ del problema del transfert: ci sono le tesi di Lagache – da leggere dopo le «avvertenze,» – ma c’è soprattutto una ricostruzione delle principali tesi freudiane e post-freudiane sulle cause, sugli effetti, sull’estensione, sui limiti del fenomeno del transfert nella situazione psicoanalitica. Ma questa operazione si ferma al 1951, anno di proferimento del «Rapport»… E allora ho pensato di aggiornarla. Ho così coinvolto nel lavoro dapprima Stefania Napolitano, che da anni mi affianca in molti impegni didattici, conosce bene la questione delle origini del transfert in rapporto alla suggestione e all’isteria (ha pubblicato un bel lavoro su questo, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi, qualche anno fa, nel 2010) ed è altrettanto affidabile nella ricerca bibliografica. Per poter mantenere ampio il campo di indagine, ho pensato ad alcuni ex studenti appassionati di psicoanalisi e che si erano a loro volta dimostrati versati nell’individuazione delle fonti, ma anche capaci nell’intelligenza dei testi studiati per le loro rispettive tesi. Andando avanti con il lavoro, ci è parso un peccato lasciare fuori tutte le informazioni incontrate nel cercare di individuare le tendenze dei diversi periodi della ricerca psicoanalitica sul transfert nella clinica individuale; così ho pensato alla costruzione di capitoli che fossero completati da un repertorio bibliografico il più ampio possibile, da consultare anche indipendentemente dagli altri capitoli. Insomma, se qualcuno ricerca qualcosa su come è stato affrontato il transfert in un certo decennio nelle riviste e nei principali volumi apparsi in inglese, francese e italiano, grazie al lavoro di Roberto Bonetti, Gilda Di Mezza, Alfonso Davide Di Sarno, Christian Lombardi, Maria Pirozzi e Carlo Paone, coordinato da Stefania e da me, ha una buona probabilità di trovarla in un tempo minore – e potendosi giovare di un lavoro critico preliminare maggiore – di quello che sarebbe necessario per ottenere la stessa informazione tramite una banca dati on-line.

Ci sono pure capitoli di un altro tipo, che intervallano quelli di ‘rassegna’ e di individuazione delle tendenze caratterizzanti un decennio. Sono i capitoli del transfert nell’insegnamento di alcuni maestri della psicoanalisi. Questi sembrano quelli più strettamente didattici, come capitoli; come sono stati individuati e posizionati nel volume i ‘maestri’? E chi sono, i maestri? Definizione piuttosto impegnativa…

I maestri sono secondo me psicoanalisti il cui lavoro ispira, in modi ovviamente diversi, quello di molti altri venuti dopo di loro e spesso venuti alla psicoanalisi perché ci sono stati loro. Come non riconoscere in questo figure come Klein, Lacan, Winnicott, Bion o Laplanche? Ce ne sono ovviamente altri (non molti, ma ce ne sono), e altri ce ne sarebbero potuti essere nel nostro libro; sicuramente posso dirti che avrebbe dovuto esserci anche un capitolo Green, ma non è stato possibile. I capitoli loro dedicati sono senz’altro – e intenzionalmente – quelli più didattici: aiutano a far orientare il lettore «non esperto». I colleghi cui li abbiamo affidati, esperti sia come universitari che come clinici (psicoterapeuti e psicoanalisti), sono stati molto interessati al progetto e hanno accettato di scrivere un lavoro ‘in stile Lagache’, per così dire, ossia quanto più chiaro, conciso e trasparente possibile su autori che conoscono molto bene. Daniela Cantone e Carmela Guerriera sono colleghe di scuola kleiniana con le quali condivido lo sforzo di far conoscere ancora la psicoanalisi nell’università senza passare per un’ibridazione con la ricerca empirica che a mio avviso (ma penso anche ad avviso loro) comporta il totale offuscamento del proprium della psicoanalisi; ho poi chiesto a Massimiliano Sommantico (altro ‘resistente’ della psicoanalisi nell’università napoletana propriamente detta; io insegno a Caserta) di scrivere su Winnicott perché non di stretta osservanza winnicottiana, per così dire, ma capace di applicare la propria impostazione di studio ad un autore il cui contributo sul transfert corre a volte il rischio di essere banalizzato nella ‘figurina’ dell’analista che, alle prese con il paziente limite, mette in campo la propria umanità. Insieme a loro, e alla stessa Stefania Napolitano che ha secondo me fatto un’efficacissima presentazione dell’insegnamento di Lacan sul transfert, c’è Eugenio Tescione, specializzato all’IIPG e che da anni svolge, come dirigente psicologo di un Dipartimento di Salute Mentale, un lavoro prezioso di tutoraggio e formazione con i tirocinanti. Questi colleghi, insieme a Elena Garritano, che mi ha affiancato nella concezione e nella scrittura del capitolo dedicato a Laplanche, sono stati contenti di partecipare alla composizione di un volume insieme a dei colleghi molto meno formati, dei giovani, a loro volta autori.

Così come è nel suo insieme, pur se con una chiara vocazione didattica, non sembra però un volume destinato solo agli studenti.

Penso, pensiamo che per i suoi repertori bibliografici, e per il lavoro di «estrazione» di linee di ricerca dominanti i diversi decenni, Il problema del transfert possa essere utile anche ai colleghi impegnati, ad esempio, nella scrittura di un articolo e che cercano un riferimento tematico in più su una certa modalità di analisi del problema del transfert nella clinica individuale; poi c’è ovviamente la traduzione del «Rapport» di Lagache, la prima, e si tratta di un classico che merita di essere letto da chiunque.

Doriano Fasoli

 

 

 

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