29 aprile 2015

«Tra poesia, il suo nuovo romanzo e gli inediti di Bertolucci: conversazione con Paolo Lagazzi», di Doriano Fasoli

Paolo Lagazzi, saggista e scrittore, è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Si è occupato di letteratura, buddhismo, magia, musica, cinema e pittura. Collabora a riviste e case editrici italiane e straniere. Ha pubblicato libri di saggistica (ricordiamo Rêverie e destino; Vertigo. L’ansia moderna del tempo; Forme della leggerezza), fiabe (La scatola dei giochi; La fogliolina) e racconti. Ha curato antologie di poesia giapponese e, per i «Meridiani» Mondadori, i volumi delle opere di Pietro Citati, Maria Luisa Spaziani ed Attilio Bertolucci (con il quale ha realizzato, nel 1997, un libro intervista: All’improvviso ricordando. Conversazioni). La presente conversazione si incentra sulle recenti pubblicazioni di Lagazzi: il romanzo Light stone, edito da Passigli, la raccolta di saggi La stanchezza del mondo. Ombre e bagliori dalle terre della poesia, edito da Moretti & Vitali, e la curatela, con Gabriella Palli Baroni, di una silloge di opere rimaste finora inedite di Attilio Bertolucci, dal titolo Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto, uscito per i tipi Diabasis.

Doriano Fasoli: Alla fine del 2014 è apparso per le edizioni Diabasis un libro di testi inediti o rari di Attilio Bertolucci, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto, curato da lei e da Gabriella Palli Baroni. Come è nato questo volume?

Paolo Lagazzi: È nato da un’idea che portavo dentro di me da parecchi anni e a cui Gabriella Palli Baroni ha aderito con entusiasmo. L'idea era, semplicemente, quella di raccogliere i migliori testi in versi e in prosa di Bertolucci rimasti inediti o dispersi in riviste, non presenti nel «Meridiano» Mondadori curato da me e da Gabriella. La maggior parte degli inediti erano nel fondo bertolucciano dell'Archivio di Stato di Parma, altri nel mio archivio personale e in quello della signora Palli Baroni. Dopo aver letto e riletto molte carte, molti foglietti segnati dall’inconfondibile, curvilinea calligrafia del poeta, io e Gabirella abbiamo scelto i testi che sentivamo più intensi e significativi, poi li abbiamo divisi in tre sezioni: la prima contiene liriche scritte da Bertolucci nell'intero arco della sua esistenza, da quando era giovanissimo fino a tre anni prima della morte; la seconda offre bellissime sequenze, brani o frammenti esclusi da La camera da letto; la terza raccoglie alcune prose di profonda qualità poetica.

Quali pensieri e quali emozioni Il fuoco e la cenere può suscitare in chi già conosce e ama Bertolucci e in chi ancora non lo conosce?

Per chi conosce Bertolucci in modo non superficiale questo libro non potrà non risvegliare quell'insieme di sensazioni, emozioni sottili e segrete, note intime, risonanze ricche di una verità umile e immensa che tutta la sua opera trasmette. Credo sia sempre miracoloso il dono che sa offrirci un poeta originale, vivo e struggente come lui, e straordinaria la possibilità di ritrovare questo dono in luoghi imprevisti, in pagine inesplorate o disperse. Chi ancora non lo conosce troverà in questo libro un ottimo viatico per inoltrarsi nel suo mondo, per esplorarlo lentamente e per lasciarsi assorbire dalla luce vera e fantastica delle sue immagini, dal suo vibratile sentimento del tempo, dalla bellezza straziante del suo amore per la vita e del suo dolore di fronte all’ombra, al nulla, alla morte.

Quali sono le poesie e le prose di Il fuoco e la cenere a cui lei si sente più affezionato?

Tra le poesie un luogo molto speciale nel mio cuore occupa quella che comincia col verso «Come lucciola allor ch’estate volge» e che evoca una lucciola morente, persa in un prato di luglio, «sola nella notte», richiamando attraverso essa il destino di ogni anima; è la poesia che scelsi di leggere in pubblico il 17 giugno 2000 a Parma, durante la parte «civile» del funerale di Attilio. Credo sia un testo meraviglioso, di una limpidezza tragica con pochi confronti possibili nel Novecento. Ma Il fuoco e la cenere raccoglie parecchi testi memorabili. Mi permetta di ricordare almeno «Alla mia giovinezza» e «Avevo dormito a lungo, senza sogni» tra le liriche sparse; la misteriosa sequenza conclusiva del «Viaggio di nozze» tra i brani esclusi dal romanzo in versi; infine «Un giorno del ’44», scorcio di grande qualità epica e umana sull'invasione tedesca dell'Appennino, tra le prose.

Questo libro può aiutare a ripensare l’importanza del poeta di Parma, la sua grandezza e originalità a quindici anni dalla sua scomparsa?

Mi auguro di sì. Il fatto è che, malgrado l’attenzione intorno alla sua opera sia enormemente cresciuta da quando cominciai a occuparmene, più di quarant'anni fa, Bertolucci è ancora letto in modo inadeguato da una buona parte del pubblico della poesia. Molti, ancora condizionati dai luoghi comuni del modernismo (uno dei quali vuole, come lei sa, che un testo sia tanto più importante e interessante quanto più astruso e incomprensibile), lo ritengono un poeta facile o minore, non riuscendo a scorgerne la complessità intima, il pathos religioso, la sete di verità, il radicamento profondo nel mistero dell'esistenza.

Alla fine del 2014 sono apparsi anche due libri suoi: la raccolta di saggi La stanchezza del mondo. Ombre e bagliori dalle terre della poesia e il romanzo Light stone. Se le chiedo di parlarne, da quale preferisce partire?

Senz’altro da La stanchezza del mondo. Perché è legato a tutto il mio lavoro critico: mentre il romanzo, una novità nel mio percorso, richiederà un discorso a parte.

Il titolo di questa raccolta d’interventi sulla poesia potrebbe sorprendere qualcuno. Quale ruolo lei assegna alla «stanchezza» nel nostro tempo storico e nell'ambito della creazione poetica odierna?

La stanchezza nel nostro tempo (almeno in Occidente) è assai più di uno stato fisico: è, anche quando non ce ne rendiamo conto, una specie di colla onnipervasiva, un magma che invade tutti gli spazi reali e mentali, una mucillagine che imprigiona gesti, passi e pensieri, una nebbia che inghiotte tutte le nostre residue speranze di capire qualcosa del mondo. Noi occidentali siamo stanchi di tutto, delle ideologie, della politica, delle utopie, delle mode, delle promesse della medicina, delle derive della genetica, delle menzogne dell'economia… Questa stanchezza contagia non solo la vita ma anche l'arte, i film, i libri e il nostro modo di rapportarci ad essi: siamo immensamente stanchi delle troppe opere false, montate per ragioni d’interesse o per pura e semplice vanità; ci sfinisce la mancanza di verità e bellezza di autori celebratissimi… Siamo stanchi perfino della nostra stanchezza, vorremmo sentirci ancora vivi ma il senso delle cose pare sfuggirci sempre più di mano. Di questa situazione (che credo di non aver affatto gonfiato) risente perfino la poesia, che dovrebbe invece essere la parte della letteratura più forte, più coraggiosa, più refrattaria alla fragilità e all'insensatezza del mondo. Molte tra le raccolte poetiche che ho letto in questi ultimi trent'anni grondano stanchezza, sono forme di grigia apatia, testimoniano una crisi radicale della parola, una specie di anemia prossima a uno stato comatoso… Eppure, mentre sembra collassare precipitando in un buco nero, la poesia continua a offrirci sorprese, a sfoderare riserve impreviste e tenaci di energia, di desiderio, di vita… Sono ancora attuali le parole di Hölderlin: «Ciò che resta lo fondano i poeti.» Il mio libro, dunque, tenta di mettere a fuoco, su questo sfondo atroce di stanchezza, alcune parabole poetiche capaci di custodire per noi il seme della speranza, il sentimento della bellezza, la luce abissale dell'altrove, la musica della terra, del vento, del cielo.

Rispetto ai tanti panorami, saggistici e antologici, prodotti nei nostri anni in merito alla poesia, mi pare che La stanchezza del mondo si distacchi per la grande libertà dagli schemi e dalle formule più in voga. È d’accordo?

Non so rispondere alla sua osservazione, per quanto assai lusinghiera per me. Potrei forse postillarla così: ho sempre detestato le forme rigide del lavoro critico, da quello cosiddetto scientifico a quello issato sui trampolini dell'ideologia. Mi ha sempre creato disagio la sicurezza di alcuni critici quando stilano il canone dei sommersi e dei salvati, dei vittoriosi e dei perdenti di fronte alla storia, come se i loro strumenti (filologici o psicanalitici, linguistici o estetici) fossero in grado di metterli in contatto con la Verità. Troppi critici non sanno vedere che è la stanchezza l’orizzonte cruciale del nostro oggi, e che nella prospettiva della stanchezza le interpretazioni si sgretolano senza tregua; questa evidenza dovrebbe portarci tutti a riconoscere il carattere relativo, aperto, incerto dei nostri giudizi. Partendo da questa convinzione ho cercato di realizzare un panorama poetico libero dai diktat del pensiero categorico, disponibile al dialogo e alla pluralità dei punti di vista. Per questo non ho concesso nessun credito alle distinzioni tra poeti di generazioni diverse, alle poetiche considerate in astratto così come al bisogno che hanno certi critici di separare i poeti dell'impegno da quelli del disimpegno, i «tradizionalisti» dagli innovatori ecc. ecc.

Come ha scelto i trentasei poeti di cui illustra nel libro le opere?

Fra le tante pagine da me dedicate negli anni alla poesia italiana contemporanea ho ripreso solo quelle che in qualche modo mi convincono ancora, ma molti poeti non presenti nel libro sono altrettanto interessanti. Anche in passato, del resto, non ho mai preteso di dire: questi poeti di cui vi parlo sono quelli davvero importanti, gli altri contano poco o niente. Piuttosto ho sempre voluto richiamare l'attenzione su autori di valore ma, per motivi diversi, rimasti in ombra rispetto ad altri non necessariamente più bravi, e anche in questo libro l'ho fatto: tra i poeti appartenenti a questa famiglia ideale mi piace ricordare qui Paolo Bertolani (uno dei più originali dialettali del Novecento), Fernanda Romagnoli (una poetessa grandissima), Giselda Pontesilli, Daniele Cavicchia, Fabrizio Dall’Aglio, Mario Lucrezio Reali e Daniela Tomerini.

Spostandoci, a questo punto, sul suo romanzo Light stone, vorrei chiederle: dopo una lunga militanza critica (e sia pure da critico-scrittore, da critico votato a una scrittura di affabulazione e d’invenzione) come è arrivato a concepire l'idea di un romanzo? Questo passaggio confessa, per riprendere l'idea di prima, una stanchezza nei confronti del lavoro critico?

Se stanchezza c'è stata e c'è in me nei confronti della critica, non è tanto per la critica in generale quanto per le sue versioni aride, asfittiche, intolleranti, ideologiche (purtroppo le più comuni, anzitutto in ambito accademico). Per quanto riguarda il mio percorso di saggista credo ci sia stato un avvicinamento progressivo al romanzo: specialmente a partire dal mio libro Per un ritratto dello scrittore da mago, uscito in prima edizione nel 1994, mi è sempre stato chiaro che non avrei potuto concepire l'esercizio critico se non nei termini di una narrazione, di una tessitura inventiva o di una piccola mitologia. La lezione di Citati è stata, in questo senso, decisiva: senza il suo esempio non avrei mai scritto La casa del poeta, un saggio che è anche il romanzo di un'amicizia (la mia lunga amicizia con Attilio Bertolucci) e della sua scena privilegiata: il villaggio di Casarola. Ma l'intreccio si è dipanato, credo, anche a rovescio: con ciò voglio dire che i miei libri propriamente narrativi contengono degli elementi saggistici. Questo è vero in particolare, direi, per le storie notturne raccolte in Nessuna telefonata sfugge al cielo (storie dedicate al dio della critica letteraria e dell’interpretazione in genere, Hermes) e per il romanzo Light stone, il cui plot è tutto giocato sul filo di due persone, un italiano e una giapponese, che si confrontano attraverso le barriere mentali che continuano a pesare sui rapporti tra Oriente e Occidente.

Come mai questo titolo, Light stone, in inglese?

I due protagonisti del libro, il violinista Francesco Alberti e la giapponese Shoko Mitabe, più giovane di lui di trent'anni, comunicano tra loro in inglese. A un certo punto lui traduce per lei una celebre lirica di Attilio Bertolucci, «Assenza», che termina con questi versi: «Dolente il petto / ti porta, / come una pietra / leggera.» Nella traduzione di lui, i versi diventano: «Sore, the heart / brings you, / as a light / stone.» In questo «light stone» il violinista stesso riconosce una doppia lettura possibile: la «pietra leggera» è anche una «pietra di luce.» A me è piaciuto riprendere questo nodo di senso come titolo del libro: anche perché ricorda uno dei romanzi più belli e misteriosi dell'Ottocento, The Moonstone di Wilkie Collins, oltre a La pietra lunare del nostro Landolfi che ne è la traduzione.

Lei ha indagato a fondo per molti anni la poesia giapponese antica e moderna, scrivendone e curando una serie di antologie. Che rapporto c'è tra queste esplorazioni e Light stone?

Niente come la poesia incarna l'essenza dell'anima giapponese. Creando Light stone ho tentato di evocare questa essenza anzitutto nella grazia della protagonista femminile, Shoko, ma anche descrivendo luoghi come il monastero zen di Engaku-ji presso Kamakura o come il parco dell'imperatore Meiji a Tokyo, in cui ho passeggiato e sostato vivendo momenti indimenticabili. L'anima giapponese, in realtà, resta un grande mistero per me: proprio mentre cercavo di farne risuonare la poesia sentivo che c'è in essa qualcosa che si dà solo sfuggendo, che si manifesta solo velandosi. Questo paradosso sta al fondo del mistero di Shoko; benché Francesco abbia molto studiato la civiltà giapponese, non riesce mai a capire veramente questa ragazza, non solo o non tanto per la differenza di età fra loro, o per l’eterna distanza tra l’anima femminile e quella maschile, ma soprattutto perché lei, benché in apparenza completamente occidentalizzata, proprio come tutti i giapponesi moderni, abita in un altrove irriducibile ai pensieri e ai sentimenti di un occidentale. Se uno dei temi fondamentali della poesia giapponese è l’evanescenza della bellezza, il suo essere appesa al filo degli eventi fluidi, transitori, cangianti come la breve fioritura dei ciliegi in primavera, o come il gioco della luce e dell’ombra nel variare delle stagioni, un leitmotiv decisivo del libro è la natura metamorfica della ragazza, il suo continuo mutare volto e aspetto, pur restando inalterato il nocciolo profondo del suo essere. Il carattere erratico della sua vita (è sempre in viaggio tra il Giappone, gli USA, la Cina, l’Indonesia e la Malesia) si nutre di un senso fondamentale di «sprezzatura», di un'energia sottile che il violinista, per quanto fine e sapiente nel suo ambito artistico, sente come un vento che lo sfiora e lo turba ma di cui non riesce mai a valutare la direzione e la forza. Così, pur respirando l'intensissima poesia di lei, il «profumo» lancinante della sua grazia (o del suo iki, per dirla alla giapponese), Francesco si strema nel vano tentativo di afferrare qualcosa di quella poesia, di racchiuderla in un cerchio protetto, in un possesso almeno ideale.

So che lei ha praticato per molti anni, e forse continua a praticare, la meditazione zen: che ruolo ha questa visione religiosa o filosofica nel suo romanzo?

Lo zen è la via sacra che Francesco segue da quando è giovane, proprio come ho fatto io nella mia vita. Eppure, come ho già detto, l'uomo non riesce mai a penetrare più di tanto in una psicologia, in una costellazione mentale, in un universo spirituale che sente inesorabilmente diversi da quelli dell'Occidente. Nonostante ciò, fino in fondo (sino alle ultime pagine del libro, che non voglio però svelare) tenta disperatamente di lacerare il suo io per calarsi in una dimensione zen a suo modo estrema. L'angoscia del violinista (un perdente che Gabriella Palli Baroni ha paragonato agli inetti di Svevo, anche se c'è un'enorme distanza tra il mio romanzo e i capolavori del triestino) è un tratto che lo avvicina a me, al mio senso di inadeguatezza, alla mia eterna insicurezza. Ma non vorrei che Light stone venisse letto come un romanzo autobiografico; nella realtà della mia vita il rapporto con lo zen è stato assai più positivo, liberatorio e felice soprattutto grazie alla forza illuminante e alla saggezza dei miei maestri: Taisen Deshimaru Roshi e il suo allevo prediletto Fausto Taiten Guareschi.

Light stone rivisita il grande tema dell'amore attraverso una serie di ambiguità, illusioni e conflitti senza cadere negli stereotipi che il genere erotico-sentimentale continua ad attrarre attorno a sé come una calamita. Per lei cosa ha significato cimentarsi con un tema così impegnativo, rischioso, spinoso?

Credo che in fondo noi occidentali siamo ancora segnati dal Romanticismo. Tuttavia il nostro stanco mondo tende sempre più a dissolvere le tracce dell'anima romantica, a disperderle nei rivoli del banale, del vacuo, del lezioso, del frivolo. Io ho cercato di costruire una storia il cui protagonista è un individuo fragile ma fatalmente controcorrente, un uomo goffo, ipersensibile e inattuale, votato ancora a sentire come una trafittura nel costato il richiamo dell’amore. L’amore che prova per Shoko non è solo una forma di ambiguità e di conflitto generati dall'incontro-scontro tra due culture diverse, è soprattutto un’esperienza radicale dell'Altro, dell’inconoscibile, e in quanto tale è intimamente legato all'esperienza della morte. Non a caso uno dei passaggi secondo me più emblematici del libro ha luogo in un cimitero non distante da Tokyo: durante una piccola cerimonia funebre in onore di un artista giapponese di cui era amico, Francesco si trova, di colpo, esposto al brivido dei sacri misteri quando colui che officia il rito gli evoca, senza rendersene conto, la sua Shoko…

In un saggio famoso, apparso all'inizio del Novecento, Miguel de Unamuno scrisse che l'amore è «ciò che di più tragico vi è nel mondo e nella vita.» Francesco Alberti potrebbe non solo sottoscrivere un'affermazione del genere ma aggiungere che, anche quando conduce alla sconfitta più totale, l'amore è pur sempre una delle avventure supreme dell'esistenza.

Gli scambi epistolari (perfino quelli brevissimi come gli sms) hanno ormai assunto un rilievo clamoroso nei nostri anni, e anche su questa nuova qualità dei messaggi, sulla loro ansiosa frequenza, e sui malintesi che possono generare, il suo libro si interroga…

Light stone non è un romanzo epistolare in senso stretto, cioè un testo riconducibile a quel filone letterario che ha inaugurato nel Settecento Samuel Richardson con la sua Pamela, ma lo scambio di messaggi (principalmente in forma di mail) tra i due protagonisti ha senz'altro un ruolo trainante, soprattutto nella terza parte. Ora questo scambio genera equivoci non soltanto riconducibili alla differenza culturale, e dunque al problema della traduzione, ma in parte legati alla natura del medium che i due personaggi usano. L'equivoco-chiave è forse quella che si potrebbe chiamare l'illusione della presenza: i nuovi media danno l'impressione di un contatto diretto, addirittura fisico con l'interlocutore (pensiamo a Skype), ma questa impressione non può abolire la realtà della distanza, una realtà che, allorché la percepiamo davvero, è in grado di gettarci in una profonda vertigine, come quando ci risvegliamo da un bel sogno. Il mio romanzo si limita, però, a sfiorare un tema di cui cominciamo solo ora a cogliere la portata antropologica e le potenzialità narrative.

Nel romanzo la leggerezza della scrittura (una costante nel suo lavoro di saggista) s’incontra con un acuto sentimento del tragico: questo intreccio è il frutto di una ricerca consapevole o un risultato involontario, nato dall'abbandono della sua mente alle ragioni intrinseche del libro?

Sono sempre stato affascinato dalla leggerezza sia nella vita che nella letteratura, nella musica e nell'arte: mi seducono, però, non solo gli autori capaci di una leggerezza tersa, trasparente e impalpabile (vorrei chiamarli i maestri dell'acquerello) ma anche quelli che, come Kafka, sanno cogliere la leggerezza, la gratuità, il candore che resiste nel cuore delle situazioni più tragiche. A questo doppio versante dello stile e della visione ho dedicato un intero libro, Forme della leggerezza, uscito nel 2010. Scrivendo Light stone avevo ben presente il carattere tragico della storia, ma ho sempre cercato di esprimerlo mantenendo il mio stile il più possibile lieve, scorrevole, libero dagli effetti turgidi, eccessivi. Non so davvero se sono riuscito a realizzare questo obiettivo, mi affido alla benevolenza dei lettori.

Doriano Fasoli

(Marzo 2015)

 

 

 

 

 

 

 

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