2 agosto 2017

«Samuel Beckett e il riso in “Aspettando Godot”» di Nicola d’Ugo



Il riso è una componente essenziale del primo teatro di Samuel Beckett, caratterizzato da situazioni umanamente catastrofiche, prive, quasi, di speranze e spiragli. Questo imbarazza il critico più che lo spettatore, il quale è chiamato a reagire in modo più incondizionato. Le gag di Aspettando Godot sono buffe, esilaranti, non v'è il minimo dubbio, costruite dall'autore irlandese con tecniche variegatissime, tese, appunto, a far ridere. Ma quando il nostro stesso riso abbia per oggetto personaggi con cui, attraverso gli espedienti che Beckett adotta, dovremmo immedesimarci, e quando questi personaggi vivano la loro condizione senza uno scampolo di speranza, allora il discorso sul riso si fa più arduo. Il riso diventa inquietante, per nulla finalizzato qual è a correggere i vizi secondo la celebre tesi di Henri Bergson, poiché qui sono saltate tutte le categorie del sociale che il riso dovrebbe emendare. Il dramma si pone piuttosto come testimonianza della condizione umana contemporanea, una condizione avvilente, di morte in vita, senza crescita interiore e sociale, sospesa per sempre in una sorta di limbo.

Questa lettura esistentiva di Beckett, in cui i clochards Estragon e Vladimir, protagonisti del dramma, rappresentano l'uomo per esteso, si oppone fortemente al riso. La grande letteratura modernista è fondata su continue contraddizioni, per cui non è in sé preoccupante osservare la dicotomia tra comicità ed elegia in Beckett. In fondo l’espressione «tragicomico» è impropria: nei drammi di Beckett in genere non si consuma alcuna tragedia. Aspettando Godot non è una tragedia, non perché vi sia comicità, ma perché la comicità non smette mai di esserci fino in fondo; e non vi è alcuna pena che i protagonisti debbano scontare a seguito di un loro risoluto comportamento. È la struttura tragica stessa a essere negata al dramma, fondata qual esso è non su agnizioni, peripezie, snodi e catastrofi, ma sulle incessanti gag. La catastrofe, se la si trova nel dramma, v'è stata prima del dramma stesso, mentre al suo interno risulta, con l'ingresso di Pozzo nel secondo atto, affatto parodica (WG 69): non tanto e non solo in quanto grottesca parodia del proprietario terriero decaduto e letteralmente caduto per terra, ma della tragedia stessa come genere.

Nella letteratura modernista, le contraddizioni, anche quelle apparentemente senza senso, hanno, se non un senso, almeno due o tre. Il riso di Beckett è la luce della speranza all'interno del dramma. Non una luce solare o divina, un invitante bagliore che faccia uscire i protagonisti del dramma dalla triste condizione umana in cui sono sprofondati, ma un'intermittente presenza luminosa che tenga sempre in contatto personaggi e spettatori. Qui quando si ride non è perché proviamo dileggio per la miseria altrui, ma perché in fondo qualsiasi situazione, anche la più sgradevole, è scongiurata dalla vis comica, da quest'emozione che se la ride delle situazioni e dei discorsi esistenziali. Il riso che suscita Beckett viene dal profondo, finanche commovendo, e ciò di cui si ride siamo noi stessi. Lo spettatore è invitato a liberarsi delle sventure di Estragon e Vladimir, in cui si rispecchia, in cui si immedesima.