17 aprile 2017

«Il Piccolo Principe. Conversazione con Antonio Gullì» di Doriano Fasoli, con un racconto di Federica Cordova



Antonio Gullì è psicologo clinico, specialista in psicodiagnostica Rorschach. Vive e lavora a Reggio Calabria, dove svolge la libera professione e si occupa prevalentemente di problematiche dell’età infanto-giovanile. Formatore didattico presso diverse associazioni di psicologia, ha organizzato e condotto di corsi di formazione clinica in Test Proiettivi e Tecniche del Gioco e del Disegno con i Bambini e gli Adolescenti e in Psicodiagnostica Rorschach. Tra le sue pubblicazioni: «Psycological Assessment», in Guidetti V., Russell G., Sillampa M., Winner P., Headache and Migraine in Childhood and Adolescence, Martin Duniz, London 2002. «Un’esperienza analitica con un gruppo di bambini in età di latenza», in atti del convegno Tra Scilla e Cariddi, Society for Psycotherapy Research, Reggio Calabria 2006. In questi giorni è uscito il suo libro Il Piccolo Principe. Un'interpretazione psicoanalitica ed esistenziale, edito da Alpes Italia.
Doriano Fasoli: Dottor Gullì, può dirci come nasce l’idea di questo libro?
Antonio Gullì: Potrei davvero dire che questa sì che è una lunga storia. In effetti questo libro ha molteplici genitori, e mi accorgo che la sua gestazione è durata parecchi anni. A iniziare dai tempi dell’università. Lessi allora per la prima volta il racconto di Saint-Exupéry, e subito mi accorsi del suo essere una «sacca di simmetria» – per dirla con Matte Blanco – dalla quale era possibile estrapolare una polisemia pressoché infinita di rappresentazioni simboliche sempre più chiare, definite e dotate di significato emotivo ed esistenziale. In questo percorso un ruolo molto importante lo hanno avuto le persone che ho incontrato e che ho amato, nonché la mia esperienza di psicologo clinico a contatto quotidiano con i bambini. Ecco, mi accorgo di avere impiegato questi anni della mia vita nel tentativo di pervenire ad una visione sempre più organica della fiaba del Piccolo Principe: e posso forse dire che il mio libro è la risultante complessiva di un tale riflettere, e delle mie evoluzioni interiori intorno ai temi della Presenza Umana e delle categorie archetipiche lungo le quali si dispiega: a partire dall’esperienza della separazione e del distacco dalle persone care – e quindi della morte.
In effetti mi sembra che il tema della morte sia un argomento molto presente in questo saggio, a partire dall’Introduzione.
Sì, è vero, e credo che non potrebbe essere diversamente. E per un semplice motivo: il Piccolo Principe, alla fine del suo viaggio, va incontro all’ovvio destino a cui tutti noi siamo votati. Pertanto, mi sembra chiaro che qualunque riflessione intorno al significato di questa fiaba non possa prescindere dall’impegnarci nel compito di riflettere sull’esperienza del morire. Ho così voluto evidenziare come alcune interpretazioni del Piccolo Principe, per esempio quelle avanzate da M.-L. von Franz e da E. Drewermann, non abbiano secondo me colto la portata emozionale dell’epilogo con cui si chiude la storia del principino. Questi autori hanno cioè inteso la sua dipartita come un fallimento delle sue potenzialità evolutive: soprattutto perché hanno fatto leva su delle chiavi comprensive che vertevano intorno alla forza regressiva e mortifera esercitata dal legame complessuale, materno e irrisolto, che contraddistinguerebbe il rapporto del Piccolo Principe con la sua rosa, ovvero vigente tra Saint-Exupéry e la propria madre. Dal mio punto di vista, invece, credo che la dipartita dalla terra di questo bimbo non segni lo scacco della sua epopea e del messaggio che ci porge: al contrario, penso che rappresenti uno stimolo incessante e insaturo per attivare la rappresentabilità immagino-poetica della nostra mente. E questo accade nella misura in cui ci impegna nel compito di comprendere l’esperienza psicologica della separazione, e la necessità di trovare ad essa un significato simbolico, personale, soggettivo ed emozionale in grado di trasformare il dolore per la perdita subita in una ricchezza interiore che ci salva nel mondo. 
Sì, ma Lei, Antonio, non crede che forse ciò che ha indotto la von Franz e Drewermann ad esprimere un giudizio così negativo sulla figura del Piccolo Principe sia stato proprio il fatto che a morire sia un bambino e non un adulto? Voglio dire: il bambino è sempre rappresentabilità del futuro, incessante propensione al divenire; e pertanto, quando il decesso concerne l’immagine di un fanciullo – come quando per esempio accade nei sogni notturni – è tendenzialmente ragionevole supporre che nella sua morte si avveri l’arresto di una parte di noi, l’abortire di un aspetto della nostra personalità che non riesce a veder la luce, che non riesce ad esprimersi, a giungere a maturazione. 
Sì, certo, questo è verissimo, ma è anche vero che la morte dei bambini è forse l’esperienza psicologica che più di ogni altra accende in noi le funzioni immaginative del mentale. Nel senso che, quando a morire è una persona adulta, giunta più o meno al termine della sua esistenza, noi possiamo pensare soltanto a posteriori al senso che la sua vita ha posseduto. Ma tanto più giovane è la persona che perisce, tanto più noi ci apriamo al tentativo d’immaginare come la sua vita sarebbe potuta essere. Le infinite potenzialità evolutive del bambino, in questo caso, divengono potenzialità evocative della nostra psiche. L’incompiutezza della sua vita lascia spazio al sorgere – nella nostra interiorità – di un insieme amplissimo di storie e narrazioni con cui cerchiamo di riempire il vuoto lasciato da una vita che si è interrotta precocemente, e sul cui futuribile possiamo pertanto esercitare un’attività rappresentazionale pressoché infinita. Non dobbiamo neanche dimenticarci che la morte dei bambini è forse l’esperienza che arreca a tutti noi maggior dolore e sofferenza: è quindi il momento in cui dobbiamo ricorrere maggiormente all’utilizzo delle nostre facoltà simbolizzanti, per venire a capo di un dolore altrimenti assurdo, lacerante e insensato. Capiamo allora che la morte dei bimbi è l’evento che per antonomasia ci fa interrogare sulla vita. Penso per esempio a quanto messo in scena in un bellissimo film di Francesca Archibugi, Il grande cocomero. Accade qui che ad un certo punto viene a mancare una bimba di pochi anni d’età e affetta da una gravissima malattia. Ebbene, durante il suo funerale, il prete che ne officiava il rito, si protende nella lettura di un passo de L’idiota di Dostoevskij che recita così: «E mentre camminava per le strade e vedeva in ogni volto i segni di una fatica inutile, o alzava gli occhi verso i tetti delle case, su al cielo, per capire se c’era un senso, egli pareva trovarlo, e si rasserenava. Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Myškin non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono?» Ecco, credo che questa domanda sia forse la domanda sull’intero senso della vita. Il chiedersi «perché, Signore, i bambini muoiono?» diviene allora sinonimo del chiedersi «perché, Signore, gli esseri umani vivono?» E non è forse questo l’interrogativo che tutti noi ci poniamo quotidianamente? 
È su questo stesso scenario che si colloca perciò anche il problema della morte consentita, cioè delle varie forme di eutanasia che oggigiorno sono ritornate così alla ribalta nel panorama socioculturale del nostro paese?
Esattamente, e vi ho accennato nel mio libro. M. Heidegger ha speso una parte notevolissima della sua teorizzazione filosofica per mostrarci come il «Vivere-per-la-morte» sia l’unica forma di vita autentica che si dà all’Esser-ci. E io ho tentato di far notare come il tipo di morte che incontriamo vivendo non sia altro che l’esatto, congruente e necessario epilogo a cui si giunge allorché la propria vita sia stata vissuta autenticamente e pienamente. Morire, allora, è un sacrosanto diritto di tutti noi. Coloro che per esempio decidono di sottrarsi agli interventi medici interrompendo i presidi ospedalieri che li tengono in vita artificialmente, non stanno facendo altro che decidere liberamente di consentire alla propria vita di fare il suo naturale decorso. In questi casi, parlare di «suicidio assistito» è per lo meno incongruo. Ma anche se si trattasse di interrompere la propria esistenza ricorrendo a questo strumento, come accaduto di recente a Dj Fabo, si tratta pur sempre di una libertà di scelta che nasce dal travaglio di una sofferenza privatissima, intimissima e inviolabile, sulla quale nessuno può dire nulla. E allora ci accorgiamo che tante discussioni intorno a queste faccende non sono altro che un chiacchierare inutile e insensato. Ci si schiera così – come se fossimo allo stadio a fare il tifo – tra chi è «favorevole» e chi è «contrario» rispetto a queste deliberazioni. Ma così facendo ci scordiamo che noi della vita degli altri non sappiamo e non possiamo sapere proprio nulla. Noi non abbiamo la minima idea di cosa nella sua soggettività affettiva questo ragazzo abbia mai provato e sentito, e quali emozioni abbia mai condiviso e patito con le persone che gli stavano vicino e che lo amavano. Soltanto loro conoscono le traversie iridescenti e drammatiche con cui si son dovuti misurare. La loro sofferenza e la loro pena a tutti noi è sconosciuta. Noi non abbiamo accesso a questa dimensione della loro anima e del loro spirito. E allora, non sapendo proprio nulla delle loro vite, come possiamo mai pretendere di essere a favore o contrari alle decisioni che hanno preso in merito? Il succo del discorso è che sul tema della «libera morte» nessuno di noi può proprio dire nulla, men che mai sentenziare. E il legislatore, che dovrà pur esprimersi in merito, dovrebbe sempre tenere bene a mente questo fattore di irriducibile inconoscibilità del dolore e della sofferenza altrui. E quindi pronunziarsi da un vertice che imponga e preveda innanzitutto il rispetto assoluto della libertà umana dinnanzi al dolore, alla vita e quindi alla morte. Valga qui il monito di L. Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere». 
Bene, passiamo allora ad un altro argomento, all’altro tema fondamentale della fiaba di Saint-Exupéry e del suo saggio: ovvero l’amore. 
Già, l’amore. L’amore del principino per la sua Rosa, per la sua mamma volpetta, per il suo amico aviatore. A tal riguardo mi sono più volte chiesto come sarebbe stata la fiaba di Saint-Exupéry se avesse avuto per protagonista una bambina e non un maschietto. E devo essere sincero: non sono riuscito ad immaginare un andamento narrativo che prevedesse questa particolarità espositiva. È stata un’autrice teatrale, la dottoressa Federica Cordova, che dopo aver discusso con me su questo tema è riuscita a scrivere un racconto davvero suggestivo con cui rendere il tema dell’amore che regna sovrano tra le bambine e i loro padri. Voglio allora concludere questa intervista riportando le sue osservazioni. Permettendomi soltanto di far notare come anche nelle sue riflessioni il tema dell’amore sia inscindibilmente legato a quello della separazione e della rappresentabilità simbolica di entrambe queste esperienze.

E se Fosse Stata una Femminuccia…? 
Dedicato a Tutte le Bambine e ai loro Papà
di Federica Cordova
Ci sono Storie d’amore che presiedono l’atto di dichiararsi Innamorati. Ci sono Storie d’amore nelle quali l’Amore esiste già molto prima di averlo parlato; e dove l’amarsi è l’ultima delle scoperte confessate all’Anima… perché, forse, sarebbe anche superfluo chiamarlo o definirlo amore… Come se si rischiasse di estirpare qualcosa di incredibilmente straordinario nell’atto stesso di (tentare di?) contenerlo. Eppure, questi Due, si incontravano con una cadenza che sapeva di «impegno». Ma era molto altro. E considerando che Lei detestava agire soltanto in nome di qualcosa di così tanto marginale o eventuale – come l’impegno, appunto – doveva trattarsi davvero di qualcosa che sfuggiva apparentemente alle semplici convenzioni tra gli Umani.
La cosa più bella che facevano insieme era parlarsi, ma si parlavano davvero come se ogni volta non attendessero altro, e come se ogni volta il Tutto che si dicevano non avesse mai un fondo, una fine. Chissà da quale ricettacolo interiore attingevano quel continuo e sempre nuovo Sapere che si donavano a vicenda, come se fosse sempre la prima scoperta che facevano l’Uno dell’Altra. Ma poi, in verità, capirono in cosa consisteva l’essenziale del loro imperituro comunicarsi: si guardavano! Si guardavano ancor più ed oltre le loro parole e, negli sguardi che si donavano, non conoscevano sazietà alcuna… e forse mai l’avrebbero conosciuta.
Io non vi dirò qui ed oggi se si Amarono davvero (come il mondo richiede a Due Bellezze di questa portata) e se riuscirono a mettere al di fuori di loro due quella Unione così profondamente vera e perfetta; se gridarono a loro stessi e al mondo la preziosità di quanto avevano tra le mani e negli Occhi. Non ve lo dirò perché, per due Anime così, è d’uopo una certa tenera e silenziosa riservatezza: proprio a preservarli da qualsivoglia definizione che non fosse partita in precedenza dalla loro unica volontà di farlo. Però, io oggi parlo così a lungo di loro per una ragione precisa e forse dovuta: voglio almeno raccontarvi soltanto quella piccola parte che mi è dato di sapere della loro storia. Ovvero di quel sentimento che avrebbe tanto da trasmettere in un universo che va troppo veloce, che fagocita e divora tutto ciò che anche e solo in potenza avrebbe il seme per germogliare ed essere finalmente coltivato e curato: con tutta l’attenzione che invece, a volte e in nome d’altro, gli viene tolta e negata per sempre!
Mi capitò così un giorno di ritrovare una vecchia lettera in cui Antoine scriveva quanto immensa fosse l’attenzione tra Lui e la sua amata figlioletta, tra lui e la sua Lola; tanto da potersi completare in attimi di Silenzio condiviso e mai privo di significato. Anzi, da quelle righe traspariva bene come ogni dettaglio dei loro incontri recava in sé una vastità tale da non potersi fino alla fine esprimere con le parole. Questo è il Destino della Grandezza. Questo, forse, il Destino del vero Amore!
A Voi, qui di seguito, alcune delle parole delicatissime e pregne di significati che quest’uomo mi donò nella sua missiva, per raccontarmi soltanto uno dei tanti possibili ed infiniti modi che aveva per parlare, anche solo a voce bassissima, della Sua In-finita Lola.
Per Lola – narrava Antoine – la Felicità non era una mèta. No, per lei, da sempre, la Felicità era «semplicemente» l’intero suo modo di viaggiare. E lei, bisogna dirlo, era davvero in viaggio sin dalla nascita: figlia di un padre Franco-Spagnolo e di una madre Inglese; un nonno Russo trasferitosi in Inghilterra ed una sfilza di cugini sparsi nel mondo: arrivando fino a Singapore. Insomma, Lola era un Universo, ma non l’Universo intero! Lola era il Suo Mondo.
Un giorno il suo papà glielo aveva chiesto espressamente: «Lola, io lo so che tu mi sorriderai e basta, ma è il mio limite, devo sapere, provaci, se riesci, e se posso capire: Tu, Tu, sei davvero… Felice?»
E cosa credete che gli abbia risposto? No, non era una bambina «indifferente» alle curiosità altrui. E di certo non peccava di distrazione rispetto a due occhi che l’osservavano con attenzione. Ma quando anche lei, come il Piccolo Principe, non rispondeva alle domande (e tu lo sapevi già che non lo avrebbe fatto…), era quasi per una indescrivibile e rara forma di pacato rispetto per il suo interlocutore. Perché Lei conosceva perfettamente cosa gli altri si aspettavano dalle sue risposte e, per una sorta di bonaria ribellione, evitava semplicemente di «deluderli»!
Eppure… rispondeva, sì che rispondeva… come io stessa non ho mai visto fare: con la forza dirompente di uno sguardo così lungo, infinito e fermo, dietro il quale potevi accarezzare la sua paura di venir abbandonata e il suo desiderio di aggrapparsi a Koala tra le braccia del suo papà. Anche Antoine rimaneva esterrefatto, incredulo e muto al cospetto di quel corpicino e di quel mistero, tanto che anche lui non pensava fosse possibile avere l’oggettiva capacità di rimanere immobili per così tanto tempo: fissando solamente un punto (magari i tuoi occhi che si trovavano lì di fronte) e riuscendo al contempo a trasmettere dentro la tua pelle l’intera portata d’un fiume in piena… in piena di emozioni.
Insomma – scriveva Antoine – posso provarci, posso cercare di raccontare cosa per la mia Lola fosse la felicità; nel disperato tentativo di non tralasciare nulla di quella meraviglia, di quella dolcezza, di quella malinconica fierezza che dai suoi occhi ho avuto il dono di attingere. E allora credo che primariamente, per la mia bambina, questa Felicità fosse una sorta di Monito costante che lei sentiva come assolutamente imprescindibile. Una specie di vocina… anzi, no, no, mi correggo, non di certo e non proprio una vocina come quelle trite e ritrite di cui si leggono troppo spesso nelle storie raccontate dalle sue coetanee; ecco, meglio, sì… un Canto! Ecco, sì: per Lola la Felicità era una Musica senza ancora spartito. Eppure ne sentiva perfettamente la Melodia, tanto da poter mettere le parole e le note insieme, come se avessero una metrica già perfetta! Ma in verità non lo era. Perché le Parole, come le Note, come i sospiri di quel Canto, variavano sempre, al variare dei suoi passi. Al mutare degli Odori, che in ogni suo viaggio si sommavano a quelli dei Luoghi appena incontrati. Odori di Volti così diversi tra loro, quanto il mutare dei paesaggi: Dolci, Muti, Impervi. A volte terribilmente brutali.
Lola. Questa Ragazzina mia, non più bambina, non più adolescente, con l’aria fresca ed antica al contempo… Non avresti saputo dire della sua età. E non perché fosse così difficile de-cifrarla, piuttosto perché ti sorprendeva sempre! Lei era un insieme di Cose, di Case, di Colori, di cambiamenti… che però non sembravano averla resa stanca. «Inconsistente», qualcuno dubitava, ma l’inconsistenza sarebbe stata la più distante tra le affermazioni plausibili da associare alla sua immagine. Lei aveva negli Occhi quella Lucina… avete presente? Quella specie di «tondino» trasparente e lucido che alcune attrici hanno… e non si capisce mai se sia l’effetto delle «luci di scena» oppure «qualcosa» che, parallelo alla pupilla, esiste in alcuni individui: come se fosse un meraviglioso regalo della Natura. E tu cominci a guardarlo quel tondino; da lui calamitato e catturato, e ascolti. Ma poi, dopo un istante, non sai più se ti sei perso in un altro mondo (quello dei tuoi pensieri) oppure se è stata proprio Lei a portarti nel suo Mondo, soltanto guardandoti, soltanto per guardarti, soltanto per essere vista, amata, «esistere».
È così che Antoine ricordava la sua piccola principessa e, quando ebbi finito di leggere la sua lettera, venni sommersa da un caleidoscopico fluire di immagini e di ricordi. Provai una straripante tenerezza, e per tantissimo tempo non riuscii a fare a meno di associare l’immagine del Piccolo Principe a quella della Piccola Lola. O forse alla Rosa, alla Volpetta, al Pilota ed a tutti i personaggi-simbolo di questa struggente Storia. Mi affascinò soprattutto l’idea che questi due racconti, così pregni ed autentici, per quanto extra-ordinari e di non comune riscontro, in verità ricalcavano perfettamente ogni singolo passaggio che la vita di tutti noi ci induce ad accettare: ovvero scorgere nell’amore il fulcro primario e portante dell’Esser-ci e dell’Esistere.
Ma l’amore, così come l’attaccamento, l’incanto e la speranza non sfuggono mai alle «leggi» della Vita terrena; e quest’ultime portano sempre e necessariamente con sé il sapore amaro della perdita e del naturale distacco. Perché, se è stato l’Amore a governare le storie di Antoine e dei suoi due figlioletti, è pur sempre vero che tale sentimento implica e arreca parecchio dolore: il dolore della fine, il dolore della morte. E noi, per salvarci dalle lacrime, non possiamo fare altro che sognare perennemente la Ri-unione eterna di tutti gli amanti, di tutti i genitori con i loro bambini, con le loro bambine.
Ed è proprio questo che successe alla nostra Lola e al suo papà. Lola un giorno andò via: per il semplice fatto che non aveva scelta, non poteva fare altrimenti, non sarebbe mai potuta restare in un solo luogo. Del resto, come dissi fin dal principio, lei portava le radici del Mondo dentro il suo petto e dentro i suoi occhi nerissimi. E allora andò e tornò e ripartii tante di quelle volte che alla fin fine il suo papà ne ebbe forse la giusta «assuefazione» a questi continui distacchi della sua piccola e ormai grande bambina. Sul finire della sua lettera, Antoine mi confessò qualcosa che non poté davvero non riempire in profondità i miei occhi di lacrime, ma anche di una serena gratitudine per l’insegnamento che mi stava donando. Un insegnamento che non ho mai scordato, e che ho tentato di applicare nella mia vita, soprattutto con i miei bambini, con i miei figli.
Nel dirmi dove si trovasse Lola e del perché non fosse più con lui, così scrisse: «Lola, naturalmente, è sempre nei miei occhi, in quel tondino luminoso che mi ha lasciato per farmi compagnia. Ma soprattutto, tra le tante sorprese che mi ha riservato fin dalla sua nascita, una la custodisco più di tutte nel mio cuore e nella mia mente: è la sorpresa di scoprire il sapore tenue e leggero che avvolge il soffrire per l’assenza. La mia bimba mi ha insegnato, con una naturalezza per me fino ad allora sconosciuta, che il suo andare e ritornare possedeva alla fine uno scopo, un motivo essenziale rispetto al quale tutto il resto sarebbe divenuto secondario e contingente, sia per me che per lei: Imparare ad Aspettarsi. Imparare a capire il valore dell’attesa, giorno per giorno, minuto per minuto, pensiero per pensiero. Una volta, avrà avuto appena nove o dieci anni, con la sua vocina ferma e dolcissima mi disse: “Sai papà, non ci farà poi male ‘assaporare’ un po’ di morte, prima che accada realmente!”… Trasecolai, ma lei continuò: “Perché così io sono certa che ameremo ancora di più questa Vita e ci Ameremo di più ad ogni nostro Abbraccio del ritorno”. Lo confesso senza pudore: non capii di primo acchito il senso di quelle parole, ma rimasi ammutolito e basito. Soltanto dopo tanti anni compresi come il suo parlarmi fosse l’unico modo che quella mia bambina aveva per dirmi: “Papà noi non moriremo mai, non l’Uno per l’Altra! Non morirà mai il nostro ri-accordarci su di Noi”. Qualche mese addietro ne riparlammo al telefono e Lola mi disse che era esattamente questo ciò che intendeva dire: “Dobbiamo sempre ricordarci – continuò – che ciò che è stato coltivato e curato, anche nel silenzio, ci renderà Vivi, anche quando avremmo voglia di dimenticarcelo. Io papà non ti farò appassire mai! E io so che tu, papà, darai il giusto nutrimento a questo Fiore che porto tra i capelli da sempre, e per sempre lo farò”.»
Con queste parole il mio amico concluse la sua lettera, e con esse io desidero prendere congedo e salutare tutti Voi. Perché ormai lo abbiamo forse più che imparato: anche le Parole hanno una loro fine. E la migliore tra tutte è quella che, nell’immaginazione, nel sogno e nella poesia, inizia il suo viaggio verso ciò che FINE non ha.
(Aprile 2017)



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